Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca

Non ci fa onore l’eccitazione con cui, più attratti che preoccupati, stiamo seguendo dalla ridotta degli studi letterari il tam-tam di una meno occasionale ingerenza dell’intelligenza artificiale nel nostro orizzonte. Il più probabile e banale soccorso che ce ne può venire (ci istiga il pregiudizio), non riguarderà niente di diverso dal «gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all’edificio commentatorio e chiarificatorio del divino poema», di cui l’Antonio Gramsci dei Quaderni del carcere scriveva che «occorre infischiarsi». Anche se c’è pietruzza e pietruzza, nonché compito e compito, e non è detto che la storia debba ripetersi, né per la verità che, invece di pietruzze, si porti con la stessa utilità il muro tutt’intero.

È già capitato che i critici letterari, quando avevano il vento in poppa e pensavano in grande, si siano messi a fare gli scienziati. Del loro successo ventennale, ha imprevedibilmente beneficiato, troppo tardi per esserne risarcito e troppo presto per soccorrere gli orfani del metodologismo che non sapevano ancora di esserlo, Giacomo Debenedetti, che invase postumamente le librerie con i quaderni preparatòri dei suoi corsi universitari e incrementò la schiera dei suoi allievi ideali, dopo che da vivo non era stato giudicato degno di una cattedra universitaria, in quanto autore di saggi ammiratissimi e tuttavia, in sede concorsuale, ritenuti militanti, cioè appunto non adeguatamente scientifici. Lo scandalo sarebbe stato maggiore e meno stupefacente se chi lo aveva bocciato fosse stato uno dei nuovi scienziati. A quei commissari di concorso era invece bastato non ritenerlo compatibile con la scienza ufficiosa dei protocolli accademici.

Non ne parlo per riaprire una vecchia polemica. Con l’allarme antitecnologico, mi è tornato in mente l’istruttivo apologo che, per deformazione professionale, ho creduto di riconoscere in un articolo uscito qualche mese fa (il 15 febbraio 2025) nel paginone culturale della «Repubblica». Come si capisce subito, Scacchi, una filosofia chiamata “freestyle”, di Massimo Adinolfi, non parlava di critica letteraria. Sono però un antico devoto di Poe, che cito volentieri per i racconti sulla detection letteraria e, a proposito degli scacchi, per spiegare il ragionamento impropriamente detto deduttivo dell’investigazione romanzesca, in Gli omicidi della via Morgue, manifestava l’eccentrica convinzione che, rispetto all’«umile gioco della dama», chiedendo una risposta complessa alla complessità, essi fossero intellettualmente meno stimolanti, in quanto non valorizzavano le capacità predittive e la praticità dell’intelligenza strategica, quella che deve essere mobilitata quando il gioco, come nel pari o dispari, si svolge tra presupposizioni reciproche, «mente contro mente», e i giocatori aggirano la difficoltà del calcolo combinando un intuitivo calcolo delle probabilità con l’osservazione e l’esperienza precedente.

Che secondo Poe altrettanto avvenga quando è il critico letterario a giocare la sua partita, sono in tanti ad averlo sostenuto, dato che in quattro almeno dei suoi racconti, aveva reso metodica e trasformato in una notifica la mobilitazione semantica del minimo dettaglio, la stessa cui esortava la critica in un suo celebre saggio sulla poesia. Di apologo tuttavia non avrei parlato, se Adinolfi non avesse riferito il caso remoto dello scacchista norvegese Magnus Carlsen, che «contende a Garry Kasparov la palma del più grande giocatore di tutti i tempi» e tuttavia «non ha più molta voglia di giocare», perché ci sono «troppe varianti da imparare a memoria, troppo poco spazio all’inventiva davanti alla scacchiera». A queste condizioni, rileva Adinolfi, «tra l’uomo e la macchina non c’è partita» (tant’è vero che ormai prevalgono sempre i computer), e perciò Carlsen, «sposando la pazza idea di Bobby Fischer», un mito degli scacchisti al tempo del dominio indiscusso dei giocatori sovietici, ha proposto di rendere impossibile (con il sorteggio della posizione iniziale dei pezzi sulla scacchiera), anche se ai soli giocatori umani, la memorizzazione delle «enciclopedie di aperture» finora «trangugiate». Il che, sostiene Adinolfi, citando Baricco e l’esempio di Faulkner da questi addotto a tutt’altro proposito, sarebbe come farla finita con i libri per leggere i quali «In un certo senso bisogna essere padroni dell’intera storia letteraria». Più democratico e divertente leggere i «Libri come partite freestyle, partite che non dipendono da altre partite, né dalla storia degli scacchi, o dal peso schiacciante della teoria», e sarebbero dunque «Partite barbare e ignoranti, e però nuove e impreviste». Non dimenticherei che un auspicio analogo potremmo sottoscriverlo tutti, in nome della stessa bellezza del gioco per la quale altrettanto democraticamente qualsiasi libro, e non solo quelli che sembrano sfidarci a vederlo, è un ponte verso tutti gli altri, ma non per questo ne impone la conoscenza. Qualcosa del genere implicava un’altra notifica che mi piace citare, quella di Mallarmé, sedicente conoscitore di tutti i libri e con ciò stesso patrono della lettura che ne prescinde.

Meglio però non prendere alla lettera neppure Baricco e non renderci ridicoli con le profezie: non siamo di fronte a una novità assoluta, ma in un campo dove la stessa imprevedibilità è convenuta. Proprio l’illustre studioso che onora questo nostro n. 51 con un suo saggio, Giuseppe Savoca, era stato il primo a promuovere in campo letterario, dopo il pionieristico esempio di padre Busa, una grande iniziativa scientifica ed editoriale aggiornata sui progressi tecnologici, «Strumenti di lessicografia letteraria italiana», avviata dalla memorabile Concordanza di tutte le poesie di Eugenio Montale (Firenze, Olschki, 1987) e destinata a una lunga vita. E poco dopo, nel 1993, Pasquale Stoppelli e Eugenio Picchi avevano messo a disposizione della comunità scientifica e del pubblico il CD-ROM della LIZ (Letteratura italiana Zanichelli), con il testo delle opere dei nostri classici e la possibilità di interrogarlo automaticamente.

Fu un sicuro progresso per i nostri studi, con la conseguenza secondaria, ma interessante che, mentre molte tesi di laurea si convertirono improvvisamente, e per breve tempo, alle concordanze o all’intertestualità, anche per motivi poco commendevoli, al contrario la ricerca, dopo aver acquisito diligentemente le nuove risorse, le ha presto restituite alla loro dimensione, evitando di confonderle con un punto di non ritorno del proprio lavoro.

L’apologo, se lo concedete come tale a questo sermoncino, soprattutto in relazione agli scacchi, con l’esempio di Debenedetti e la citazione di Gramsci, non vuole incoraggiare nessuno a un integralismo incompatibile con lo stesso oggetto del contendere o con i santini che ho appena appiccicato sul cruscotto. A esserne interessati, se non mi sbaglio, sono semplicemente due aspetti della stessa attività, che, se li proiettiamo sulla loro comune funzione formativa e sul risultato che debbono raggiungere, non si rivelano poi così distanti e sono anzi complementari, anche se rischiano sempre di radicalizzarsi, come già anni fa temeva Luperini, nell’intuizionismo sconsiderato o nella più miope pedanteria. Fuor di questi estremi, la differenza la fa per chi batte il cuore: tutti vogliono bene alla mamma, ma ciascuno alla sua.

Quanto a me, continuo a credere che l’allarme suoni inascoltato da anni (fin dalla razionalizzazione burocratica della ricerca) e che la minaccia riguardi solo chi dovrà snaturarsi per smascherare la concorrenza elettronica. Sulle questioni universitarie che ci stanno a cuore, meglio però ascoltare Mario Sechi, che pubblica in questo numero un intervento.

Venendo agli altri articoli, detto di Giuseppe Savoca, che arricchisce la sua produzione leopardiana di notizie e considerazioni preziose sulla significativa presenza del dimenticato Francesco Maria Zanotti, protratta dalle giovanilissime Dissertazioni filosofiche alla Crestomazia della prosa, allo Zibaldone; nomino appena il contributo di Anna Dolfi, Una collana per la Sardegna, e, soltanto perché riguarda Angelo Pupino, il mio. Così posso citare, tra i saggi, quello dannunziano di Stefano Giovannuzzi, Sull’idelogia delle canzoni della gesta d’oltremare, che tocca con profitto un’opera e un nodo problematico ancora condizionati da una antica diffidenza, e quello di Nicole Valeri, che riconosce L’ombra di Nievo nel finale di Senilità, con il suffragio di voci critiche come Maffei, Sechi e Tortora. Hanno il consueto rilievo due nutrite rubriche: «A fuoco» su Goliarda Sapienza, a cura di Stefania Lucamante e Alessandra Trevisan, e «In circolo» su Sanguineti, a cura di Lorenzo Resio.

Nicola Merola

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